10 gennaio 2014

L'unica via per la libertà?

Pare che tutto sia partito da un tweet, ma chi sia la fonte del rumeur non si sa. Sta di fatto che la notizia (già smentita dalla portavoce del presidente) dell'improvvisa morte di Paul Kagame ha suscitato reazioni opposte: silenzioso terrore in Rwanda (dove la gente non osa commentare al telefono perché tutto è controllato), sfrenate manifestazioni di giubilo in Congo. La voce è esplosa ovunque e la gente si è riversata nelle strade a festeggiare: a Bukavu, Beni, Butembo, Kisangani, ma soprattutto a Goma, dove giovani hanno improvvisato un finto funerale con tanto di bara per le strade principali, mentre i mototaxi suonano i clacson, i negozi chiudono e alcune scuole mandano a casa gli studenti. Un'euforia basata a quanto pare su un falso, ma che suona come un segnale lampante per i vicini.
Settimana scorsa stessa sorte era toccata al despota dello Zimbabwe Mugabe, con annunci di morte poi smentiti. La gente oppressa d'Africa, che non può e non riesce a liberarsi dai tiranni, affida dunque la propria liberazione all'inevitabile scure che prima o poi tutti abbatte?
Il punto però resta un altro: nessuno è eterno e se non sarà per un attentato (come si sta vociferando in queste ore), sarà per vecchiaia o malattia. Cosa accadrà quel giorno? Oggi ne abbiamo una prova in Congo. Ma in Rwanda? Senza il pugno di ferro del capo, che ne sarà dello sviluppo a marce forzate e della concordia nazionale imposta?

6 dicembre 2013

Il giorno dopo. Il giorno dopo, nella mente si affollano pensieri, ricordi, immagini, scelte, persone, volti, parole, insegnamenti, libri. La morte di Madiba era attesa da mesi. Preannunciata già mesi fa, poi smentita, è stato come se lui, da grande uomo qual era, avesse deciso di dare del tempo al suo paese e al mondo per prepararsi alla sua dipartita. Da ieri sera rivedo i luoghi visitati ormai otto anni fa, intrecciando ricordi personali e professionali. La sua umile casetta di Soweto, il museo dell'apartheid, l'oscuro totem che invece ricorda la storia degli afrikaaners, la chiesa di Soweto ancora crivellata di colpi, e poi le testimonianze atroci dei sopravvissuti, il cammino di riconciliazione, esperimento così vero, pur nei suoi limiti, che ha salvato il paese da una guerra civile e da vendette infinite. E poi il Sudafrica di oggi, le sue mille contraddizioni, le vittorie e le sconfitte, la povertà, l'arrivismo e la piccolezza dei leaders che hanno preso il suo posto, la corruzione, la disillusione. Oggi, Mandela viene iscritto d'ufficio nel pantheon dei grandi dell'umanità, collocandolo accanto a Gandhi (che proprio in Sudafrica trascorse la sua giovinezza e forgiò parte della sua incrollabile fede nella lotta nonviolenta) e agli altri. Tra i pochi uomini consacrati esempi e modelli già in vita. Un esempio ed un appello che lascia a tutti noi: non smettere di sognare, esser pronti a vivere e se serve a morire per i propri ideali (come disse durante il suo processo e ripetè il giorno della sua liberazione). Lui, la sua figura, il suo esempio sono stati il catalizzatore del grande cambiamento, della caduta dell'apartheid. Ma forse non ci saremmo arrivati se alla sua voce non si fosse unita quella di tanti africani e occidentali. Se non si fosse giunti ad una mobilitazione mondiale, al boicottaggio, alla stigmatizzazione della segregazione dei "non bianchi" in Sudafrica. Ed io, nei miei ricordi, non riesco oggi a non pensare a Vik, che sulla sua tomba porta proprio una frase di Mabiba: "Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare". Mandela negli anni scorsi definì la Palestina "la questione morale dei nostri tempi". E tanti sono oggi i sudafricani attivi nella lotta e nella sensibilizzazione per la causa palestinese. E mi ritrovo a pensare che solo quando il mondo intero smetterà di fingere di credere alle ragioni degli oppressori, solo quando ci si unirà in una sola voce per chiedere la liberazione della popolazione prigioniera nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, solo quando il boicottaggio sarà sistematico e universale, anche la causa per la liberazione del popolo palestinese troverà la sua vittoria. Ma per farlo resto convinta che serva uscire da certe logiche, presentarsi a mani nude, seguire l'esempio dei grandi lottatori senza armi. Come Vik. Anche se, va detto, la lotta in Sudafrica non poté rimanere nonviolenta, come spiegava Nelson Mandela in The secret warrior (2000): "Gandhi remained committed to nonviolence; I followed the Gandhian strategy for as long as I could, but then there came a point in our struggle when the brute force of the oppressor could no longer be countered through passive resistance alone. We founded Umkhonto we Sizwe and added a military dimension to our struggle. Even then, we chose sabotage because it did not involve the loss of life, and it offered the best hope for future race relations. Militant action became part of the African agenda officially supported by the Organization of African Unity (O.A.U.) following my address to the Pan-African Freedom Movement of East and Central Africa (PAFMECA) in 1962, in which I stated, "Force is the only language the imperialists can hear, and no country became free without some sort of violence." Così è la storia di questa ed altre lotte. Siamo umani, i percorsi della nostra storia non sono mai perfetti. L'importante è non accettare, non rassegnarsi, credere e agire insieme per migliorare ciascuno il proprio angolo di mondo. Ed io, in direzione ostinata e contraria, continuo a credere fermamente che solo la nonviolenza ATTIVA sia la vera risposta a ogni tipo di oppressione. Perché "Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare".

4 ottobre 2013

Lampedusa e noi

Da ieri non trovo pace. Non trovo le parole, ma la rabbia e l'indignazione sono più forti di tutto. E non cessano di crescere. Erano già al colmo quando i morti erano "solo" tredici, stesi sulla spiaggia di Scicli, la settimana scorsa, e un altro essere umano faceva lo slalom tra i morti continuando a fare jogging. Crescono di ora in ora mentre sento i commenti della gente, di quella gente comune che sarebbe l'italica "brava gente" e che invece in radio (anche quelle dove ti aspetteresti commenti solidali! anche loro!) e nei commenti sui giornali si mostra gretta e abbrutita, incapace di alzare lo sguardo dal proprio misero orticello da difendere. Poco fa in tv hanno trasmesso le immagini del salone nautico di Genova, dove in segno di lutto hanno voluto onorare i morti suonando le sirene. ero allibita: nessuno delle centinaia di presenti, NESSUNO che almeno si fermasse. Nessuno. La pietà è morta. E morti siamo noi. Noi occidente siamo morti, morti dentro, incapaci di provare sentimenti, inabili al titolo di esseri umani. Saremo travolti, sì, come paventano i tanti che temono l'invasione. Ma saremo travolti da noi stessi e dalla nostra inumanità. Noi, sepolcri imbiancati, capaci di piangere lacrime false e girarci dall'altra parte per continuare le nostre spesso inutili ma sempre urgentissime attività. C'è una scena che mi torna in mente da ieri, da quando un letto uno dei tanti tweet su #Lampedusa. Non ricordo più chi scriveva che siamo tutti bravi a parlare, ma che nessuno si prenderebbe in casa un naufrago. Mi sono fermata a pensare, mi sono interrogata. Lo farei? non lo so, posso dire di sì, ma sarebbe vero? E mi sono ricordata del viaggio di giugno e luglio in Congo, a Goma, città sotto assedio, che da vent'anni non conosce la pace. Lì ho i parenti e metà del mio cuore. I ribelli erano e sono alle porte della città. La gente scappa in continuazione dalle campagne, alle porte della città ci sono sterminati campi di sfollati. Nessuno di loro arriverà in Europa, state tranquilli! Non ne avrebbero modo. Chi da quelle zone arriva qui è chi ha studiato, chi ce l'ha fatta. Gli altri si affollano in campi privi di tutto. Alcuni sono anche nostri parenti. Siamo andati a trovarli. In una casupola di lamiera e assi di legno. In quanti ci vivevano, ora non ricordo. Una normale, numerosa famiglia congolese. Con un bimbo appena nato. Ci hanno accolto, offrendo ciò che avevano, condividendo il loro poco cibo con noi. Donandoci i loro splendidi sorrisi, di cui mai sono avari. Loro, in quelle misere quattro mura, si stringono e trovano spazio per un parente in più che scappa, per un amico, per un ospite. E infatti chi si occupa di sfollati ci spiega che i campi sono stracolmi, m in realtà i numeri sono ancora più grandi, perché tanti dei fuggitivi sono accolti nelle case dei parenti, dei conoscenti, ma anche da altri, che - semplicemente - sono esseri umani. Esseri umani veri, che sono ancora capaci di CONDIVIDERE il poco che hanno. Ecco. Se l'occidente si salverà, sarà per merito loro. Badate: se chiudiamo le frontiere, moriremo soli, seppelliti dalla nostra indifferenza. Apriamole, prima che sia troppo tardi: saranno loro a salvare noi. PS: Queste mie parole non valgono per i Lampedusani, che il cuore e le porte non le hanno mai chiuse. Grazie per ciò che ci insegnate. PPS: guardate quell'immagine. La coperta dorata avvolge un corpo più piccolo degli altri. Potrebbe essere mio figlio. O il vostro.

16 luglio 2013

Goma sotto attacco

Se avevamo bisogno di conferme a quanto ci raccontava sul posto una fonte (vedi il post qui sotto "Goma 2013. Neverending story"), ci stanno arrivando nel modo peggiore: tutto quanto ci aveva anticipato si sta puntualmente avverando. Da ieri si spara con armi pesanti alle porte di Goma. Si scontrano di nuovo le FARDC (le Forze Armate Congolesi) e l'M23, i cosiddetti "ribelli". La Monusco (missione Onu in RDC) dà man forte ai governativi. Mentre eravamo ancora a Goma, l'M23 aveva avvicinato alla città il suo quartier generale e nella città si respirava aria pesante, pesantissima. La psicosi dell'"ora ci attaccano". Poi per qualche giorno l'M23 era arretrato. Fino a tre giorni fa, quando ha ripreso le posizioni a Kibati, pochi km a nord di Goma, e da lì è iniziato lo scontro. Chi abbia iniziato non è dato sapere, visto che le parti si rimpallano la responsabilità. La battaglia di ieri a Mutaho è terminata a favore delle FARDC, che hanno respinto l'M23 a Kibati. Secondo un ufficiale sulla linea del fronte, se la Monusco non avesse insistito perché le FARDC non aumentassero la pressione, i combattimenti si sarebbero spostati verso Kibumba. Nel pomeriggio di ieri, una lunga fila di soldati si è spostata attraverso il centro città, fino alla grande barrière, la frontiera tra Goma (RDC) e Gisenyi (Rwanda), dove si sono posizionati. Segnale inquietante. E in tarda serata sono giunti in città anche i mezzi logistici del contingente malawita, parte della Brigata con mandato offensivo che è stata decisa nei mesi scorsi in appoggio alla Monusco. Secondo alcuni, l'attacco sferrato ieri dall'M23 sarebbe stato proprio in vista dell'arrivo del contingente malawita. Un po' come era stato a fine maggio, quando i ribelli avevano ripreso le ostilità pochi giorni prima della visita a Goma di Ban Ki Moon.